DIARIO DI UN RITRATTISTA: L’inefficacia di un’opera d’arte (I)
“… sai perché ogni opera che dipingo mi appare sempre come inefficace? Come un fallimento rispetto al progetto originario? Perché l’immagine che avevo nella testa (ma sarebbe più corretto scrivere: nello spirito) non era fatta di linee, di mescolanze cromatiche, di rapporti tonali nel chiaroscuro. La sua formazione, la sua essenza era fatta di emozioni, di sentimenti, di tremori, di scatti d’ira e di sussulti d’amore. Tutte cose assolutamente vere ma impossibili da trasformare in materia viva, da rendere visibili sulla superficie di una tela. Posso solo suggerire queste emozioni; posso evocarle con uno sforzo estremo nel confessarmi al cavalletto, ma non diverranno mai il sogno intravisto e goduto che ha generato l’immagine viva dentro di me…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (II)
“… imprigionato sulla tela il personaggio osservava il suo creatore. Gli impasti oscuri e densi di arancio di cadmio con porpora cesariana avevano creato una zona d’ombra profonda, ma il luccichío dei suoi occhi spiccava anche nella oscurità delle cromie. E creava disagio al pittore ; era una sfida silenziosa che ribadiva il diritto alla libertà di esistere ; il personaggio si dilatava , misteriosamente, nello spazio ampio dello studio, e la sua presenza ingoiava ogni cosa : le suppellettili, i barattoli pieni di pennelli e spatole, i tubetti di colori ed anche la grande tavolozza zeppa di mescolanze ancora brillanti e morbide : alcune avevano toni zuccherosi come miele che sgocciola, altri mettevano il fiele sulla lingua tanto erano acidi ed amari, altri spaccavano i muri di quella stanza per spalancare le braccia a cieli sterminati e freschi di umidori profumati. Ma tutto questo pulsare di vita e di luci, ogni fragranza ed ogni sapore impallidivano dinanzi alla sfida impavida ed oscura del personaggio imprigionato sulla tela… “
DIARIO DI UN RITRATTISTA (III)
“… ho consapevolezza di essere scontato fino alla nausea, ma non posso tacere le sensazioni che sempre mi evoca una spiaggia che ha perso l’allegria dei bagnanti ed il gorgoglio del mare riempie il silenzio dei lidi. In fondo l’estate somiglia un po’ all’amore: lo si vive appieno e lo si apprezza nella sua interezza molto di più, quando il fulgore dei giorni più belli diventa “passato” . Come l’amore diventa “tutto bello” quando lo si veste di quello che è stato, così il mare disvela la sua ricchezza di mistero quando perde il trofeo dei bagnanti e può gloriarsi solo di impronte lasciate. E comincia a vivere su una tela…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (IV)
“… la luce! La luce! La luce: era la sua ossessione , la luce! La sfida quotidiana da accettare con entusiasmo mescolato ad una stilla di paura. La gioia di riuscire ad intrappolare nelle mescolanze oleose l’iridescenza della materia raffigurata sulla tela, era oscurata da palpiti ritmati, provocati dal timore velenoso di fallire. La sconfitta era in agguato ; un serpente nero ed insidioso, pronto ad ingoiare ogni bagliore, anche il più tenue . Il quadro, allora, sarebbe stato solo un dipinto , e mai più avrebbe avuto la vita palpitante di un bar illuminato nella brillantezza della sera, o la profondità densa di un’ ombra che rivela delicatamente il brillío d’uno sguardo. La luce era anche la sua unità di misura. Attraverso di essa egli sceglieva i suoi modelli, decidendo, in modo sicuro, chi potesse diventare carne e vita in una scena , attraverso miscugli dal sapore alchemico. Nei giorni migliori, era capace di creare campiture audaci : gli era possibile oscurare il giallo di cadmio, mantenendone però la brillantezza fino alla fusione con il violetto più intenso, e questo gli procurava vertigini di piacere. La luce del suo studio assumeva anche una capacità magata di trasformarsi in fragranze e materia. Ogni oggetto, di quell’ambiente assumeva consistenza grazie al gioco della luminosità ovattata che sembrava plasmarlo, e l’odore intenso di resine, di essenze straniere e di vernici veniva anch’esso generato dalla luce delle due grandi finestre…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (V)
“…il sapore dolcissimo come miele, che impregnava la voce di Maria Betânia, sulle note di “tarde em Itapuã“, rivestiva ogni angolo del mio studio adagiandosi teneramente in ogni spazio ; era come l’abbraccio tenero e disperato di una madre che spinge la boccuccia del suo bambino sul capezzolo avvizzito senza più latte. Infatti, le tonalità possedevano, fra tanta dolcezza, un fondo amaro e malinconico che toccava le parti più vulnerabili dell’anima. “ … ao sol que arde em Itapuã…” e nasceva sulla tavolozza il calore dell’arancio di cadmio; ” … e o diz que diz que macio / que brota dos coqueirais…” ed era generato il verde permanente, che inondava di speranza un cielo profondo , tanto esteso da giungere all’indaco .
L’intensità di questo luogo è nato da infiniti atti di amore; l’amore, quello vero, non è silenzio! L’amore che ti spreme sospiri dal petto mentre affonda la lama di una sofferenza acuta dentro l’anima, non è silenzio. Urla, l’amore. Un grido di gioia che provoca spasmi che non si possono dire…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (VI)
“…un giorno tu ed io dovremmo parlare! “ Gridò , senza parole, il pittore al personaggio che era già nato per metà, sulla tela: un occhio lo fissava, brillante e vivo, scavandogli dentro l’anima senza alcun pudore e senza neppure chiedergli il permesso di quella intrusione; l’altro era ancora una campitura oscura che si scorgeva appena, diluendosi nel fondo del quadro dal sapore intenso della radice di garanza. Eppure con il suo unico occhio vivo era capace di sfidare la serenità del suo autore fino ad irritarlo. La vitalità di quel personaggio scorreva, con la luce, in ogni solco, in ogni grumo di colore inciso dai colpi di spatola, rimanendo però, inafferrabile alla comprensione del pittore…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (VII)
“… l’amore, quello vero, non finisce : si trasforma, perde in luccichio ma guadagna in profondità. L’amore che nasce come un mondo nuovo, generato dalla collisione tra due stelle che dopo la violenza dell’inizio forma un pianeta vergine, ricco di germi di vita: scintille rubate alla luce dell’universo e che diverranno piante e fiori, che si trasformeranno in oceani e piogge gentili, che faranno germogliare vite e formeranno nubi e che accenderanno orizzonti per ospitere tramonti e notti ricche di lune, quello no, una volta sbocciato non avvizzisce. Le due stelle originarie sono divenute consustanziali e dunque inscindibili. Se ci appare esausto, forse non è mai esistito; lo abbiamo confuso con la complicità ubriacante di batticuori e vampate allo stomaco, dopo una serata al pub. E questi sono asteroidi. Presuntuosi, capaci di creare anche disastri , simulando orbite improvvise, per la smania ambiziosa di essere pianeti!…” Lui (l’autore) intrecciava spesso dialighi simili con le figure che animavano le scene metropolitane dei suoi dipinti, anche se la tentazione di considerarli monologhi era in agguato, ed Il delirio lucido di avere risposte, riempiva il suo animo , gonfiando la sua fantasia fino a procurargli allucinazioni uditive. Tuttavia, nel silenzio dello studio riusciva a percepire gli aliti sommessi dei colori; ed avevano voci e grida ; emettevano pianti e nenie dolcissime. Quelle non gli sembravano fantasmi del suo animo sofferente , perché era il solo modo possibile per sapere di essere vivo…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (VIII)
“…ma era soprattutto di sera, quando il breve chiarore dell’eos, la cosiddetta “ora azzurra”, generava il silenzio spegnendo ogni palpito di vita che aveva fatto risuonare le stanze dalle risate e dai dialoghi intrecciati dagli allievi, che lo studio si accendeva di una luce misteriosa, capace di penetrare fino al midollo dell’anima e metteva a nudo ogni increspatura del cuore. Quei muri sembravano possedere la capacità spugnosa di assorbire ogni respiro, ogni espressione vocale che avevano riempito gli ambienti, con le ironie ridenti, esplose come petardi, e che infiochettavano l’aria con il gorgoglío di risate e vampate di allegria. La ritualità di quei momenti aveva la sacralità di un atto solenne: egli passava tra i cavalletti dei suoi allievi, considerando con attenzione puntigliosa ogni lavoro e solo allora era capace di avvertire, in modo completo, il possesso di quel piccolo mondo dai confini senza barriere. La stanza ritornava pulsante di emozioni e le presenze dei giovani artisti, come ectoplasmi, aleggiavano in ogni angolo; ricordava ogni nome , e con gli occhi di dentro rivedeva centinaia di episodi come frammenti di un lungometraggio che volteggiavano nell’aria divenendo coriandoli colorati e lievi e che avevano formato, nel corso degli anni, il sedimento, l’humus di quella terra feconda e dolcissima. Era la sua terra ed egli ne era il custode, ne era il sovrano ma anche il prigioniero d’amore.
Varcata la porta dello studio il tempo assumeva una dimensione spirituale: era come privato dai limiti fisici; si dilatava o si restringeva assecondando gli stati del suo animo e si arricchiva di emozioni che diventavano mescolanze cromatiche, sonorità e qualche volta persino fragranze capaci di adagiarsi come una velatura, sull’odore intenso degli ambienti, generate dalla mescolanza dell’ essenza di trementina con le resine che spesso ardevano nel locale. Non erano più stanze, ma uno spazio dell’anima.
Lo scorrere del tempo era scandito dal fremito vitale di ogni pigmento; lo spirito era sbalzato in alto, fino a raggiungere distanze siderali, dalla fosforescenza gelida del violetto di cobalto, ed un momento dopo , con un gemito del cuore, grazie alla regalità sfacciata del giallo di cadmio, il suo spirito assumeva capacità dilatative tali da riuscire a contenere territori smisurati… “
DIARIO DI UN RITRATTISTA (IX)
“… il giovane artista era di fronte a me. Ci divideva la scrivania zeppa di cose, ma la distanza che lo metteva al riparo da una mia intrusione era molto più vasta: Il centro del suo spirito mi sembrava irraggiungibile. Nel caos della stanza solo i suoi occhi, chiari come le acque di un mare calmo, davano un senso di immobilità; ma l’aria che c’era non metteva pace, trasmetteva piuttosto un disagio, un pericolo sottile ed appuntito come la punta di un ago. Il disagio di essere dispersi in un deserto sconfinato ed il pericolo di non riuscire a trovare una via di scampo a quella immobile desolazione.
Il suo era un dialogo ricco di espressioni pacate, ricolme di quella rassegnazione che, come una calzamaglia di acciaio, riveste ogni gesto di chi ha rinunciato alla ribellione. La sola cosa che appariva logica e possibile era ascoltare il racconto del suo malessere; ma lo esprimeva come se a viverlo fosse una persona al di fuori di quella stanza. Lui semplicemente non c’era, lì. La sua era una presenza immateriale, composta da un dolore così grande da poter essere solo subìto…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (X)
“… è da quella finestra, appena illuminata, che nascono i sogni. Ogni idea, ogni palpito che genera un’emozione entra in punta di piedi, volteggiando nell’aria profumata d’incensi , come una piccola fata immateriale. D’incanto ogni oggetto diventa magato: la garanza brillante ha la forza del sangue appena sgorgato da una ferita profonda nel cuore , ed il blu d’oltremare si liquefa per farsi oceano spumeggiante, nel ribollire di onde possenti che s’infrangono su coste di sabbia colore ocra attica antica, fino alle prime ombre violacee di tramonti infuocati, creati dalla purezza sfrontata dell’arancio di cadmio. Tutto ha inizio da quella finestra appena illuminata. E di sera, le fate incorporee creano silenzi profondi per ascoltare i racconti che vibrano in sospiri e canti sommessi, da una tela appena dipinta…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XI)
“… il viso appariva come impegnato nello sforzo di conservare tracce sbiadite dell’adolescenza; erano dettagli appena percepibili ma che rendevano più evidente il contrasto tra lo sguardo acuto ed intenso con l’aspetto remissivo e dolce dei tratti. Non mi era facile spiegargli che quando si è avuto sentore di poter volare in alto, il ritrovarsi a camminare, goffamente, in una terra che ci diventa in un batter d’occhio ostile, può essere un’esperienza così dolorosa da provocare spasmi nell’anima. Avrei voluto – e forse dovuto – dirgli quanto renda vulnerabili accettare di vivere a fondo la vocazione artistica: il rischio sarebbe stato quello di vivere in uno stato di fragilità che, a tratti, può diventare follia, perché fa vivere la consapevolezza che tale fragilità è anche il carburante necessario per alzarti in volo e spingerti, con ardimenti e sensi di euforia incontrollati, fino a sfiorare orizzonti che si erano solo sogna
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XII)
“… mi ero ammalato d’arte. Questa consapevolezza aveva trovato spazio nella mia vita, adagio ed annidandosi silenziosamente , come fa un morbo subdolo . Ed in modo altrettanto subdolo aveva invaso ogni fibra del mio corpo che dopo averne assorbito ogni alito velenoso , aveva lasciato che gli effetti traboccassero così da inondare, in modo più devastante , anche il mio spirito. L’aspetto che più mi inquietava però, quello che mi procurava maggiore sofferenza , era il torpore della rassegnazione subìta in nome della giustizia nel dovere pagare , in modo equo , una elezione tanto alta.
“In fondo – pensavo- un artista possiede la forza che gli deriva dalla capacità di trasformare i quattro elementi, così che divengano passione, sentimento sogno e sacralità! Mica roba da poco. E soprattutto non per tutti! Tuttavia gli effetti della malattia di cui soffrivo avevano appetiti continui e si manifestavano con voracità devastante: ogni impegno che mi obbligava ad essere lontano dagli odori delle vernici e dalla luminosità delle mescolanze cromatiche, mi procurava uno stato febbrile di tensione così intensa da farmi odiare ogni altra possibilità di vita…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XIII)
“… forse ogni uomo nasce con la possibilità di guardare il mondo in bianco e nero, e vivendo conquista la capacità di godere dei colori. Un dono tanto speciale , però, ha il suo costo e lo si paga con molte lacrime ma anche con tantissimi sorrisi ed infiniti sogni. Sono le esperienze vissute , i luoghi abitati e la gente con la quale abbiamo avuto contatto a stabilire l’ampiezza e la ricchezza di questo nuovo potere ! Mi è sempre piaciuto considerare questa idea come un dato scientifico. D’altro canto, le sensazioni avvertite non sono forse vere, quanto le leggi scoperte dall’uomo? L’odore resinoso dei pini marittimi diluito nella fragranza mentolata di eucalipti inondava l’aria nella Avenida Antônio Emmerich a São Vicente, la cittadina confinante con Santos dove viveva il nonno. L’essere nato a Roma era un marchio di fabbrica incancellabile, e ne andavo fiero , ma questo privilegio non poteva competere con l’emozione causata dalle infinite percezioni che assorbivo – famelico come una spugna – da quando mi ero trasferito in Brasile. A Roma c’ero nato però la nuova Patria mi aveva regalato una seconda pelle e con essa la capacità ( che oggi definirei “animalesca” ) di stabilire contatti profondi con luoghi e persone , attraverso le tracce odorose che mi colpivano con intensità sempre più acuta. Il Brasile è il luogo della rivelazione di ciò che sarei stato . Un grande utero che ha rimpastato le mie origini per fare nascere un uomo nuovo.
L’assonanza colore-gusto- odore era diventata una prerogativa consueta per me : era il solo modo conosciuto per custodire i ricordi, anche quelli di giornata. Ed ancora oggi, il colore marroncino caramelloso della rapadura ( il dolce dei poveri fatto con succo di canna da zucchero bollito, che mangiavo spesso da qualche amico, nella favela, facendolo sciogliere sulla lingua) ha la capacità magata di farmi sentire immerso, anima e corpo, in quella fase della vita che ha modellato il mio essere…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA: l’eleganza generosa dell’indaco – (XIV)
“… l’indaco è tra i miei colori preferiti. Solo la lacca di garanza d’alizarina gli contende il primato nella scala dei miei gusti. Il grigio profondo ( sembra non dover finire mai ) che lo caratterizza , gli conferisce un’eleganza – che non è mai presuntuosa – e che diviene effervescente grazie al fremito assorbito dal blu intenso che lo compone. Ma è anche dotato di grande generosità questo colore : si lascia diluire docilmente se mescolato ad una stilla di tinta più chiara , e la sua malleabilità è tale da giungere fino alla rinuncia della propria radice, assorbendo intimamente il pigmento che gli si unisce , fino ad assumere una cromia nuova. L’indaco però non perde mai la sua eleganza .La sua fresca intensità mi fa pensare ai cieli gonfi e lividi , vissuti sulla spiaggia di Copacabana, quando in un trasmutare di venti caldi, la splendida baia che abbraccia Rio con curve sinuose come le braccia tornite e sode di una mulatta formosa , diventa color verde rame adornata di un copricapo di nuvole grigio violacee dal sapore apocalittico. In questa immensità di azzurri , con le narici ricolme degli aliti salati del mare in burrasca e delle fragranze fruttate portate dalle palme da cocco , vidi per la prima volta Tomé. Indossava solo un paio di bermuda, troppo ampie per il fisico magrissimo ma ben proporzionato e sembrava assolutamente incurante del temporale annunciato, continuando a giocare con il suo pallone. Era scalzo ed il palleggio era una danza che evocava un’armonia felina. La pelle da mulatto , umida di sudore ,brillava riflettendo ogni sfumatura della scena che inquadravo. Avevo negli occhi, ma più ancora nel cuore, la tavolozza completa per fare vivere sulla tela quell’attimo che sembrava rubato ad una eternità felice!… “
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XV)
“… Tomé viveva sulla spiaggia. La “Praia do Leme” era la sua casa. Di giorno , quando non palleggiava , sambando sulla sabbia luminosa e soffice come farina, lavorava agli ordini di un padrone dispiegando le sedie in ferro e plastica, per i bagnanti popolari che frequentavano quel litorale . Il suo compenso era di pochi Reais , sufficienti appena a garantirgli un piatto di feijoada con poca carne , che mangiava in una delle lanchonete , in fondo all’Avenida , sempre piene di operai e bande di giovani ; l’odore dolciastro della pinga si mescolava con le capriole fumanti dello churrasco che arrostiva su grandi teglie di ferro . Quando arrivava la notte, si stendeva sotto una palma da cocco per dormire, fino al primo raggio di sole. A volte rimanevo a guardarlo per ore cercando di conservare nella memoria visiva la straordinaria mescolanza di colori della sua pelle : il sole giocava con la spuma del mare ed a me quel brillare di luce, simili a diamanti spruzzati nell’aria, sembrava l’omaggio gentile dell’acqua al giovane amante. Per quanto lo osservassi non mi riusciva di comprendere come rendere , con i pigmenti, il colore del suo corpo che al calare della sera, quando tutto il mondo diventava azzurro, sembrava assumere una consistenza nuova che lo faceva diventare solo un punto , appena più scuro , nel paesaggio. Il violetto aranciato diluendosi nello spazio che lo avvolgeva, diventava luminoso fino ad ad assumere la regalità allegra dell’arancio , grazie a quei “miracoli” della luce che sono sfida e corruccio di ogni pittore.
Tomè sorrideva spesso, e la nobiltà del suo sguardo incuteva un dolce rispetto. Questa sensazione così densa era sottolineata dai movimenti sempre misurati ed eleganti ; la sua figura sembrava essere parte integrante di quel pezzo di terra, dove lui, il giovane amante dell’acqua, era signore!…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA ( XVI)
“… la ” mãe de santo ” camminava sulla spiaggia deserta, ed il suo incedere seguiva il ritmo delle onde muovendo il corpo, con accenni di danza. La gonna, larghissima, era a sbalzi ed ornata da bordure traforate; sembrava materializzarsi dal ribollire spumoso e bianco del mare. Una piccola camiciola – anch’essa candida – le copriva il torace e le braccia nude e poderose erano adorne di bracciali dorati e di piccole catene di perline colorate. La pelle, molto scura, era una frattura tonale e solo l’ampia scollatura mostrava il colore più chiaro e tenero dei seni. La grande madre ! Era lei la sacerdotessa di Iemanjà, la dea del mare che nasceva dalle acque notturne. C’era pace. E si dilatava , con onde tiepide e profumate, fino a sommergere anche lo spirito. Vivevo una equazione perfetta: la luce serale generava lo spazio celeste, rigato dal sangue del sole morente e l’immensità dell’aria si liquefaceva in azzurri più intensi , fino ad assumere toni smeraldini, per diventare oceano. La mia presenza era solo un accadimento irrilevante: l’emozione che esplodeva silenziosamente in ogni cellula del mio essere, aveva trasformato la mia sostanza corporea in puro spirito con la sola capacità di assorbire ogni respiro di quel momento estatico. D’improvviso ci fu un ” non tempo ” – ma fu solo un attimo- in cui tutto sembrò congelarsi . Ogni elemento esplose in una luce abbagliante per diventare pigmento e palpito. La piccola tela non aveva più confini e lei, la “mãe de santo” cominciava a vivere con un lungo sospiro, antico come quella spiaggia…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA ( XVII)
“… il sole abbacinava come uno scoppio di flash esploso negli occhi, ma non faceva male : il tepore che si espandeva tremolando nella brezza leggera, era odoroso del sapore dolciastro degli avocado e dei manghi maturi e succosi che penzolavano dai rami dei grandi alberi. Dava l’effetto di una sinfonia di luci e profumi e la povertà era un concetto difficile da comprendere. Il silenzio del mezzogiorno riempiva ogni angolo della favela e nel sentiero sterrato , che serpeggiava tra le case minuscole di mattoni rossi e tavole di legno, si disperdevano le la voci cantilenanti degli speaker e si mescolavano a molti brani di samba prodotti dagli apparecchi radio delle abitazioni. “Quando c’è troppa felicità che si infiltra silenziosamente nel cuore , la mancanza di danaro non coincide con la tristezza” : questo era il mio pensiero mentre mi inerpicavo tra le baracche e le costruzioni appena più dignitose. La considerazione mi sembrava assurda e l’idea di sentirmi cinico mi regalava tristezza mista a disagio. Però i tre ragazzi erano davvero felici lanciando i loro aquiloni nel cielo azzurro e caldo. L’inadeguato, l’intruso ero io. E per quanto amassi dal profondo delle mie viscere quegli spazi angusti ma spalancati a sensazioni di piacere che sembrava non avere limiti, il senso di estraneità a quel mondo fuori dalla storia e da ogni riferimento codificato era un marchio incancellabile. Avrei potuto solo rubare, con i miei colori, il biancore dei sorrisi e l’allegria dei piedi scalzi sulla terra luminosa. Gli aquiloni , però, non riuscivo a farli entrare nella tela : volavano troppo in alto …”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XVIII)
“… avevo appena terminato il colloquio con il mio allievo. Era poco più di un ragazzo, ed era seminarista : un frate francescano.
Dalla mia scrivania percepivo ancora l’odore saturo di incenso della sua tonaca ed aveva il potere di evocare salmi e vita silenziosa, di elevare lo spirito oltre la materia .
” Siete nel mondo ma non siete del mondo” mi aveva detto, ripetendo un pensiero del Vangelo, e l’affermazione – pronunciata con un sorriso – mi era rimasta incisa come una iscrizione; sovrastava ogni altra idea. Non riuscivo a concentrarmi su niente altro.
In fondo – riflettevo – l’artista non fa lo stesso? Non vive, forse, come un esiliato, nella ricerca continua di un linguaggio che lo riconduca al mondo che lo ha generato e che egli tenta di evocare in ogni sua opera?
Il blu oltremare che distende sulla tavolozza infatti, non è ciò che appare: pigmento brillante e luminoso. Nel cuore, nello spirito dell’artista, esso diventa onda fresca e spumeggia negli oceani che sconfinano sulla tela, premendo oltre i bordi del telaio spinti dalla fame di spazi infinitamente più ampi. Ed il rosa pallido mescolato ai gialli di Napoli, sotto i colpi dei pennelli che materializzano un volto, non diviene forse carne? Tanto viva da mostrare il gioco delle vene turgide di sangue caldo, appena sotto l’epidermide. Un artista o un vocato alla vita consacrata vivono, in maniera diversa, la medesima condizione, nel sentirsi solo dei viandanti in cammino; questa consapevolezza genera una vita interiore – quella vera – che dona capacità di sfiorare ciò che appare tangibile ai più, nella certezza di avere un universo spirituale, molto più vasto e reale del mondo in cui appaiono immersi…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XIX)
“…eh, amico caro, sono nato con il vizio del colore e della luce! È un fardello pesante, anche nella gioia indicibile :.. d’improvviso, senza farsi annunciare , deflagrano le cascate di luci! Nascono senza rumore, come un gorgoglío sommesso nel petto ; poi inondano il cuore e la mano non può contenerle. Rotolano, fanno capriole bellissime ed ardite, strizzano l’occhio , tendono le dita a toni più teneri ed appena più opachi e con loro si uniscono: sono le nozze d’amore che generano scintille di emozioni folli e di godimento, annullando ogni confine che separa la realtà percepita e quella più “vera”, dell’anima!…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA ( XX )
“…mi creda : è l’abbandono il male oscuro dei nostri tempi. È un ” non esserci più ” che, come un cancro maligno e devastante , divora l’essere presenti a sé stessi. L’intelligenza illuminata dalla ragione onesta, si oscura. L’assenza di sé , divide l’esistenza nel quotidiano tra quello che sei fisicamente ed il respiro – molto più vero e tangibile- della propria anima. È un confine tracciato con crudeltà inaudita , e genera ferite mortali nella storia. Ogni prodotto ne è conteggiato; l’umanità, privata dalla capacità di elevare lo spirito oltre le apparenze concrete del suo essere , diviene solo animale oscuro; divoratore di ogni suo simile ed incapace di generare scintille vitali, che sono germe fecondo di bellezza e di soluzioni rinnovate, per innalzamenti sempre più arditi. Il senso del Sacro è maciullato, e con esso la cultura dell’arte, quella vera, che ne è il prodotto più chiaro…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXI)
“… forse non ha mai considerato, caro amico, quanto venga utilizzato male l’organo della vista. Stamane, leggendo il mio nuovo libro, mi sono imbattuto nel pensiero di uno scrittore norvegese che mi ha folgorato, nella sua semplicità. Ma, in fondo, tutto ciò che è davvero profondo ed importante si veste di semplicità! Nel vivere quotidiano siamo convinti di vedere quello che lo sguardo registra ed invece, nella maggioranza dei casi, ci sfugge la verità, spesso l’essenziale. Mi creda : nel ritrarre un modello quello che veramente è efficace per rendere l’anima del personaggio è un’indagine minuziosa di dettagli che sfuggono se diluiti nell’ osservazione delle fattezze. Una piega appena percettibile, il guizzo di luce nella torsione degli occhi, oppure il fremito di una emozione che si palesa nella piega sottile del labbro, possono modificare in maniera profonda l’anima del ritratto. Eh già: in fondo quello che va cercato è l’anima! E non è cosa facile! Tuttavia riuscire a “vedere” oltre la cortina di ciò che si guarda, può rendere inutile, superflua anche la comunicazione verbale. Si può mentire facilmente parlando, ma diventa molto più difficile farlo con uno sguardo !…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXII)
“…sono appena rientrato dalle studio ed aprendo la porta di casa ho lasciato sulla chiave un po’ di arancio di cadmio che avevo ancora sulle mani. La luce e la gioiosità della sua essenza mi rallegra e passo subito alla risposta del suo quesito . Le sembrerà strano mio caro, ma soltanto quando certe mescolanze si abbracciano ed unendosi in un bacio, si fondono e diluiscono generando una tonalità nuova, soltanto allora il quadro comincia davvero a vivere. Questa nuova “creatura” – che porta il germe di ogni pigmento dal quale proviene – ha una personalità che non avevi pensato e neppure deciso, ed ha anche il potere di regalarti la meraviglia del suo iniziare ad esistere : l’opera è nata! Questo momento estatico è compresso in un battere di ciglia ; denso e misterioso come un buco nero che immette in universi paralleli lo spirito del mago/artista e la sua opera. È come il primo respiro : intenso ed immediato , tanto che non fai in tempo a contemplarlo, che è già volato via e puoi solo viverlo. È difficile da dire, sa caro amico ? Ma è una evidenza che abbaglia : comprendi che fino a quel momento, il lavoro fatto è stato soltanto preparare lo spazio per accogliere la nuova esistenza; ora va eliminato il superfluo e la verità grida e disvela la necessità di fare pulizia , liberando la tela da ogni orpello ; togliendo più che aggiungendo. È la ricerca del filo che può condurre fuori dal labirinto, come Arianna . La necessità di scappare dalla prigionia delle ovvietà diventa impellente, anche se apparivano accattivanti, vestite da sfumature sapienti e delicate, da mescolanze ardite e voluttuose. È un impegno silenzioso e sono pochi coloro che hanno la capacità di percepirlo ; forse questo è l’aspetto più misterioso del fare arte: quello più difficile da comprendere ; quello che richiede spasimi di vita ad ogni artista…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXIII)
” …il mio allievo non ha fretta di vivere ; lui assapora ogni secondo di coscienza scandito dal ritmo del respiro e così si appropria dei suoi tempi. Ha avuto molti dolori , anche se truccati di piaceri , ed il soffrire lo ha condotto alla scoperta delle capacità creative ; per molto tempo ha fatto nascere sogni e spasimi d’amore , dall’uso smodato dell’alcol ed ha frequentato compagni di afflizione , condividendo fraternamente il disagio del vivere . Però non ha mai smesso di amare le stelle e nutrirsi dei fulgori teneri della loro luce. Ecco, mio caro amico : conoscere le vicende spirituali di un artista , la sua intimità, vuol dire esporsi alla considerazione impietosa – ed anche pericolosa per molti aspetti – di quanto possa apparire banale il vivere nella condizione di “normalità” che accomuna tutti coloro che non hanno il tormento gioioso di una vocazione tanto particolare quanto profonda. Spesso mi è capitato di chiedermi se non sia questa ferita dell’anima che insieme al dolore geme attimi di felicità estatica , il meccanismo fatato capace di produrre opere che nascondono anche a colui che le ha create, la loro bellezza più intima…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXIV)
“… mio giovane amico , cercherò di soddisfare la sua curiosità circa il lungo periodo che ho vissuto in Brasile , raccontandole un episodio che ricordo con particolare emozione e che arricchisce di preziosità il mio vissuto , dal quale traggo da sempre la mia ispirazione artistica. Tra i miei compagni di scuola, l’amico del cuore era Miguel , un piccolo mulatto dal fisico scheletrico ma dallo sguardo bellissimo. L’arguzia e la sensibilità del suo cuore erano evidenti in ogni azione. Miguel viveva nella favela confinante con il quartiere dov’era la mia casa ed io ero spesso ospite della sua famiglia, nei pomeriggi assolati e ricchi di profumi difficili da raccontare. La vita spesso ha un suo modo creativo di gestire gli equilibri emotivi degli umani ; le privazioni di quella comunità che viveva in uno stato di povertà assoluta erano compensate da suoni e musica di incredibile bellezza e , soprattutto, gli elementi essenziali della loro cucina erano utilizzati con grande maestria e generavano odori così intensi da provocare continue secrezioni salivari che regalavano un piacere sottile e persistente nell’attesa di gustare quei cibi misteriosi.
La cosa successe a Natale ! Come tutti, in famiglia avevamo fatto il nostro albero , ricchissimo di palline colorate e luci che facevano brillare la casa di scintille magiche. Avevo invitato Miguel a merenda e mi aveva colpito ed intristito il modo con il quale egli aveva guardato la stanza addobbata. Dopo qualche giorno, dopo la scuola , accompagnai Miguel fino a casa. Le baracche di legno e le poche abitazioni in mattoni rossi, senza intonaco, facevano risaltare con più dolore le poche luci natalizie, realizzate con fili elettrici arricchiti di qualche lampadina ad incandescenza. Entrando nell’unico vano della sua abitazione, vidi che anche Miguel aveva fatto il suo albero di Natale. Ma era stato realizzato, mettendo in un vaso di terracotta riempito di terra, il ramo secco staccato da uno dei molti alberi di jabuticaba che infiocchettavano la collina dove era nata la favela, e per addobbarlo aveva utilizzato la carta rosa con la quale veniva venduto il pane, facendone palline di carta. Da allora ogni volta che faccio l’albero di Natale, rivedo gli occhi pieni di luce del mio amico ed il Natale si colora di una nota dolce di malinconia, pensando alle sue palline di carta rosa…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXV)
” … tra le virtù magate del mio studio, c’è la capacità metamorfica , incredibile e misteriosa, di quelle stanze : il piccolo mondo dove nascono i miei trucchi colorati e che palpita come un grande utero, gravido delle giovani vite dei tanti artisti che lo popolano, all’improvviso, si piega alle esigenze del mio spirito e diventa un eremo irraggiungibile a chiunque non possieda la conoscenza della parola magica che ne disserri gli ambienti , divenuti silenziosi. È lì che mi rifugio quando la necessità di guardarmi l’anima diventa esigenza vitale. Ecco, amico caro, come vede cedo alla richiesta di parlarle delle mie cose più intime , seppure con lo sforzo di vincere il pudore che si ha nel rivelare cose tanto personali . Ho deciso di trascorrere le ultime ore di quest’anno nel mio studio . Il tributo di dolore e di vite pagato alla storia recente , ci ha resi diffidenti verso la possibilità di vivere momenti felici ma , come tutti , alimento la speranza che alle porte vi siano mesi nei quali la normalità non corrisponda più ad una distanza di sicurezza che ci deruba dal senso della comunità, riducendoci ad una solitudine guardinga, trasformandoci in cani rabbiosi . Tuttavia non mi piace rinnegare i mesi trascorsi e vissuti ; buttarli via come una cosa morta , inutile e della quale disfarsi ad ogni costo. Le esperienze accumulate, per , quanto dolorose ed oscure , ci hanno donato la capacità di sfidare la morte con guizzi di generosità profonda e di amore al prossimo che non pensavamo di avere. Spesso noi umani ci macchiamo di una colpa mortale nel rinnegare il passato puntando al futuro , ignorando che il presente si alimenta della saggezza delle esperienze vissute e dell’entusiasmo degli eventi che osiamo sperare ! Auguro anche a lei , giovane amico di accogliere il nuovo anno, con la capacità di vivere la speranza : tra le virtù umane , è quella che ci fa capaci di gustare il senso della meraviglia!…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXVI)
“…i ricordi belli esistono per donarci la capacità di neutralizzare un presente che ci procura disagio o dolore. È un meccanismo che nasce spontaneo ; una difesa connaturata per sopravvivere ai periodi oscuri, quando anche la speranza soccombe all’evidenza di una sofferenza troppo cocente. Affiorano dal limbo del tempo e galleggiano, dilatati , attingendo la forza per esistere, alla ricchezza di un passato ricco di esperienze e di contatti umani, finalmente compreso in tutto il suo prezioso fulgore. Davvero non so dirle quale sia stato lo spunto che ha disseppellito dai ricordi più cari, la bella figura di Mircia. Ero seduto alla scrivania del mio studio, immerso nella progettazione di un’opera e all’improvviso ho riascoltato la risata gorgogliante e fresca della ragazzina che aiutava la mamma nelle faccende di casa, a São Paulo, negli anni vissuti in Brasile. Era arrivata nella capitale da una cittadina dello stato di Minas Gerais, che la cultura contadina aveva reso celebre grazie ai formaggi che vi si producevano e dove si poteva mangiare la migliore feijoada del Paese . Gli ingredienti erano semplici ma gustosissimi: fagioli neri, carne secca, pezzi di maiale ed il tutto insaporito da farofa ( farina di mais condita con diverse spezie) che dava al piatto il suo inconfondibile profumo ed anche la capacità misteriosa di evocare storie antiche di schiavi, visioni di sconfinate piantagioni di caffè e di cotone, e persino canzoni dolcissime e terribilmente tristi. Tutto questo era parte essenziale di Mircia. La razza mulatta le aveva donato un viso con dettagli di grande bellezza, ed anche una figura minuta ma slanciata e dall’andatura felina; le sue movenze erano quelle di una danza e quando assecondava il mio desiderio di ascoltare il racconto delle mille storie della sua gente, la dolcezza di ogni gesto era guarnita da piccoli scoppi di risate che portavano gioia e promettevano ore sempre felici. L’incanto che riveste gli anni della mia adolescenza lo devo a lei, alla sua capacità di rendere magica anche la cosa più banale. Fu lei a condurmi per la prima volta ad una festa di Carnevale , organizzata nella favela dove viveva sua sorella. Di quel giorno ricordo , con grande emozione, il sapore intenso della rapadura, il tepore dolcissimo del succo di canna appena spremuto e la musica che riempiva ogni angolo della comunità. Le case, le baracche di legno e lamiere, arrampicate sulla collina, creavano grappoli di vicoletti scavati nella terra battuta, ed erano collegati da minuscoli sentieri posti su diversi livelli ed uniti da scale, in cemento grezzo, che formavano un dedalo così assurdo e giocoso, da cancellare la povertà assoluta del luogo. Tuttavia, quell’aglomerato vastissimo di vite, inimmaginabile in un luogo tanto improvvisato e fragile, palpitava di respiri festosi e le centinaia di bandierine di carta sottile, incollate a fili di spago fissati da una abitazione all’altra formavano una ragnatela vivacissima di colori. Ogni abitante della favela era impegnato a produrre musica utilizzando pentolame e lattine vuote di birra; il risultato era una armonia di suoni tribali, dal ritmo incalzante e così avvolgente da provocare la necessità incontrollabile di danzare, per fondersi alle vibrazioni che si diffondevano in ogni angolo: era l’unica possibilità di vivere quel momento. La sensazione di felicità che avvertivo nel petto è ancora così viva ed intensa da provocarmi uno spasmo di piacere, molto simile al dolore…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXVII)
“… la sua affermazione è giusta : le arti sono sorelle essendo generate dallo stesso palpito che mette in armonia cuore, spirito e capacità intellettive. Tuttavia l’elemento distintivo di queste muse , quello che ne sottolinea le differenze caratteriali, a mio parere, è il senso del pudore. Ci pensi: la musica ha una esternazione così chiara e palese , anche nella sua espressione più sommessa, da potersi definire spudorata nell’offrirsi ai cultori. I sospiri sussurrati di certi passaggi e le grida evocate dalle note più squillanti, i pianti sommessi di tonalità basse e gravi, hanno il potere di mostrare paesaggi e figure come illuminate da un lampo improvviso ; talvolta suscitano emozioni così intense da coinvolgere ogni senso nel godimento dell’immagine creata.
La pittura, ha un pudore maggiore; le mescolanze sapienti di un artista provetto, possono creare montagne boscose e spiagge inondate di sole , posseggono il segreto per materializzare guizzi di luce che rendono vivo uno sguardo, e per comporre scene di grande potenza dinamica. Tuttavia molto spesso, un’opera pittorica cela all’ osservatore l’essenziale del messaggio cifrato. Per disvelarsi in tutta la sua magnificenza ha bisogno di un lettore che conosca le regole e possegga la chiave che ne disserri l’ordito e le sue ricchezze.
Infine, la poesia, la scrittura, è la musa velata. La pudica per eccellenza. Ha mai riflettuto su come ogni vocabolo abbia possibilità infinite di connubi capaci di generare sentimenti ricchissimi di sfumature, emozioni di profondità inaudite e descrizioni minuziose e ricchissime? E tutti gli universi sensoriali evocati da una espressione descritta esistono soltanto grazie al pensiero di colui che le potrà leggere. Mi creda : vivo spesso il dilemma se dipingere quello che scrivo oppure liberare nella parola trascritta le mie creazioni a colori…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA ( XXVIII)
“…per soddisfare la sua curiosità su un elemento che utilizzo spesso nei miei dipinti devo parlarle ancora del mio amico brasiliano. Miguel amava i palloncini colorati. Mi raccontava di averne avuto uno quando era bambino; lo aveva vinto in una lotteria della Parrocchia di S. Pietro , nella favela dove viveva. Da allora custodiva in silenzio, come una cosa della quale vergognarsi, il desiderio di poterne avere tanti, un giorno. Questo piccolo sogno gli appariva come una macchia oltraggiosa : l’infamia di non essere cresciuto e non poter essere ammesso tra ” i grandi ” della favela, quelli che scendevano in città per fare a botte con i figli dei signori. Devo a lui il mio incanto , sempre vivo , per i palloncini colorati. Hanno il potere di rapirmi in vortici di allegria anche oggi. Sogno ancora di averne tanti, per guardarli fluttuare nel cielo ; con gli occhi del cuore, li vedo dondolarsi nell’aria, eleganti e leggeri, mentre ne trattengo la fuga , stringendo tra le dita i fili sottili che mi permettono di assaporare un respiro del loro essere liberi. Sono un bouquet di fiori multicolori . Gonfi di nulla ed iridescenti, come lo sono certi sogni dei quali conservi il tremore di una emozione assaporata , senza possibilità di ricordarne i dettagli. Un giorno chiesi a Miguel perché amasse tanto i palloncini . Ricordo con precisione dolorosa il modo con cui mi guardò prima di mostrarmi, in un largo sorriso , i grandi denti bianchissimi : ” … sembrano così fragili! Li possiamo far morire appoggiandovi la piccola spina di un fiore , eppure ho come la sensazione che potrebbero anche sollevarmi in aria con loro; volando così in alto vedono cose che noi non vedremo mai, e si tuffano nel profumo dell’aria , dove non arriva il puzzo delle strade in cui vivo. Ti rendi conto di come brillano al sole? Che belli!..” Miguel era estasiato ed i suoi occhi scuri riuscivano a trasmettermi le visioni incantate del suo pensiero. Ma l’episodio che ha segnato il mio spirito, facendomi amare per sempre i palloncini colorati, avvenne in un giorno di pioggia, ai bordi della strada che portava alla favela , scavata seguendo il canale di una fogna a cielo aperto, dove spesso giocavano i tanti bambini di quelle baracche. Avevo comprato al mio amico tre palloncini , per vederlo felice e la sua gioia nel ricevere il piccolo dono fu tale da indurlo ad un silenzio commosso. Miguel li stringeva camminando al mio fianco , mentre guardavamo le piccole gocce di pioggia giocare con l’acqua del canale. All’improvviso, la sua mano si liberó dei fili ai quali erano legati i tre palloncini , lasciandoli liberi di correre verso il cielo. Ero confuso ed anche rattristato, al pensiero che il mio regalo lo avesse in qualche modo ferito. Ma lui, mi guardò ed allargando le braccia, come a scusarsi, mi disse : ” voglio che siano liberi! Sicuramente voleranno lontano e nessuno potrà farli scoppiare. Ti vorrò sempre bene, anche se andrai lontano come loro e mi ricorderò sempre di te quando vedrò un palloncino che gioca nel cielo!”…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA ( XXIX)
” …mi creda: sono consapevole di quanto sia pericoloso raccontarsi, esponendo le parti più morbide dell’anima, quelle più vulnerabili , che possono essere ferite anche solo con lo sguardo poco attento di un amico al quale si voglia bene. Tuttavia è un rischio che non manca del suo tornaconto: raccontarsi abitua alla pratica – che reputo molto saggia – di guardarsi dentro.
Infatti la richiesta di farle conoscere come abbia scoperto la mia vocazione artistica significa dare voce all’anima, obbligandomi a vincere i pudori più intimi ; questo disarma perché la rinuncia alla corazza formata dai sedimenti del quotidiano , ci rende privi di ogni difesa. Infatti, la verità rende luminosi, ma questa virtù è contrapposta alla fragilità dell’essere facilmente attaccabili.
Fin da bambino ho avuto necessità di costruirmi una realtà personale da poter essere contenuta in un foglio. Era come un universo alla mia portata, e potevo esserne il mago, l’imperatore, facendo sgorgare nello spazio bianco , ogni sorta di vita e di luoghi dove lasciare libero lo spirito. Con gli anni ho imparato a gestire con più sapienza il mio dono e le vite che generavo assumevano connotazioni e dettagli sempre più certi .
Ha mai riflettuto cosa comporti fare vivere sulla tela un personaggio generato, solo dall’ averlo pensato? È la vicenda antica del giovane incauto che si vide riflesso nella sua bellezza! Lo stagno di Narciso! L’aspetto essenziale di come si è percepiti ! Sarà, forse, questa la follia degli artisti che tutti raccontano? Posso dirle che osservarsi , da un mondo parallelo, genera una immagine immateriale ma viva , efficace nel suscitare emozioni profonde , spesso anche violente. L’autore vive momenti esaltati , nel delirio della creazione. Le ho già confidato che dialogo spesso con i miei personaggi; e non pensi che mi assecondino sempre: qualche volta hanno un’idea diversa e mi contraddicono. Anche questo mi ricorda una favola: Pinocchio che scopre la disobbedienza e si ribella al suo creatore. Come vede, concepire un’opera d’arte è cosa molto seria e talvolta dolorosa. Ma fa parte essenziale di questo meraviglioso gioco che solo pochi sanno fare seriamente…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXX)
“… ho la presunzione di credere che un giorno il nostro epistolario possa essere di qualche interesse, nel trasmettere i confronti tra un artista ed un cultore d’arte. In fondo i nostri dialoghi possono suggerire riflessioni interessanti, non trova, mio gentile amico? Desidero raccontarle del sogno fatto la scorsa notte. Sarà un modo di considerare l’ideazione di un dipinto, da prospettive diverse. Probabilmente è stato provocato dall’ opera alla quale sto lavorando e che mi suscita emozioni particolarmente intense. Di certo, nel leggermi starà pensando che ogni quadro è amato dal suo autore in modo unico, ed ha ragione a crederlo; tuttavia alcune opere vengono alla luce con una sofferenza maggiore che, a sua volta, genera una gioia più tangibile ed anche più intima, capace di perdurare a lungo nel tempo, e per certi aspetti anche di modificare i suoi effetti. Le ho già scritto che un quadro o una scultura possiedono una vita misteriosa: non sono cose inanimate come appaiono. La loro esistenza più autentica viene rivelata e percepita soltanto da interlocutori capaci di intendere il linguaggio dello spirito che può essere anche più denso e ricco di quello che utilizziamo nel quotidiano. Ma non voglio abusare della sua attenzione e le dico subito del sogno. Mentre dormivo ho visto Narciso ! Non mi riferisco al personaggio che sto dipingendo , ma alla persona che avrei voluto incontrare, da sveglio. Un’immagine pensata e dipinta può essere più viva e concreta di qualcuno con il quale intrecciamo relazioni, vivendo.
Ero ai bordi di un piccolo lago e la luce di un crepuscolo appena annunciato mi rivelava ogni dettaglio del luogo, con fosforescenze di zaffiro che suggerivano incanti e melodie silvestri. Di colpo però, non so dirle come, non ero più all’aperto, accanto allo stagno, ma avevo mutato consistenza divenendo acqua viva ed osservavo dal basso il giovane bellissimo curvarsi sulla mia superficie. Nei sogni, talvolta il pensiero, diventa la cosa pensata! Ero attonito e felice mentre consideravo le capacità mobili della mia nuova natura.
Il chiarore della sera diluiva e scorreva, riflettendosi con fremiti appena percepibili, ma gonfi di emozioni , nei solchi liquidi delle mie profonditá. Ero vita silente ma potevo dilatarmi, adagio in onde sempre più ampie al tocco lieve delle dita di Narciso, mentre intrecciavo con il suo spirito colloqui sommessi. Il nostro discorrere era muto, eppure percepivo ogni espressione in modo tanto luminoso e sicuro come non lo avrei potuto in nessun dialogo verbale. Mi osservavo guardandolo e percepivo il suo dolore riflesso nel mio; era un patire antico che raccontava di tutte le cose che potevano essere e che non furono ma non c’era rimpianto. Al risveglio, il ricordo del nostro discorrere era così vivo da farmi pensare ad un incontro reale piuttosto che al frutto della mia fantasia . Le sarà chiaro quanto l’emozione vissuta mi abbia arricchito di spunti e riflessioni: il mio dipinto avrà una identità più consapevole…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXXI)
“… ” SAUDADE! ” è la gemma , più emblematica del Paese al quale appartengo per diritto di amore corrisposto e per formazione , ed è contenuta in un vocabolo. Mio caro, ha ragione nell’affermare che un idioma è frutto della stratificazione di esperienze ed emozioni, e non solo da elaborazioni culturali o politiche. Il linguaggio è una creatura viva ed in quanto tale, si evolve e cresce nel tempo, nutrendosi della ricchezza che solo il vissuto può concedere. Il suono melodioso della lingua , con la quale sono cresciuto l’ha colpita e questo mi suggerisce riflessioni e riporta frammenti di memoria , intrisi di dolcezza, lievi malinconie, emozioni intime che fanno battere il cuore e dolore sottile, tanto simile ad un piacere, che il pudore fa silenzioso. Ecco: è una idea sfocata di cosa significhi “saudade”. È l’incantesimo dai poteri inimmaginabili, compresso in un sentimento. Esso riveste la mia vita brasiliana e nei ricordi palpita con fremiti continui, in ogni piega dello spirito. Rivivo quegli anni, ogni giorno e nessun personaggio, tra i molti con i quali ho condiviso allegrie e speranze, ha lasciato il palcoscenico dove recito e vivo il mio quotidiano. Sono i compagni fedeli e preziosi con i quali ho tessuto l’ordito della mia esistenza e dai quali succhio, avidamente, gli aliti necessari per generare il mio universo a colori!…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXXII)
Le pietre vive
“…i minerali dai quali nascono i pigmenti sono materia viva : in essi è racchiusa la luce, il movimento e le emozioni che animano i miei quadri. Lei crede che il sasso adagiato, da secoli, sul greto di un fiume non abbia la capacità di custodire i messaggi e le informazioni dell’acqua che ha levigato la sua superficie con infinite carezze ? Oppure che il masso scolpito perché divenisse monumento , non custodisca il sudore e le preghiere dell’uomo che lo ha lavorato con grande fatica ? Le confido di avere sempre pensato alle pietre non come a cose inanimate , incapaci di avvertire e trasmettere sensazioni emotive ; immagino che abbiano una sensibilità misteriosa, così celata e preziosa da potersi svelare soltanto ai pochi capaci di mettersi in ascolto . Umilmente .
Sono molte le cose che vivono così sommessamente, da non essere percepite perché hanno un respiro poco evidente.
La breve eternità di una pietra e l’attimo appena avvertito , tra due battiti di cuore : eppure dall’incontro di queste realtà , distanti anni luce , nascono i luoghi del tempo. Quanti “ti amo” sono rimasti imprigionati nelle asperità della pietra che prima di essere strada fu roccia , incastonata nell’intimo possente di una montagna? Quanti “per sempre” vivono ancora , intrappolati nella superficie levigata dei marmi che rivestono un ponte ed hanno goduto , per secoli , di albe e tramonti attraverso lo sguardo di due innamorati? Non ho mai rinunciato a comprendere il muto linguaggio di un luogo perché in esso avverto la vita che ha lasciato orme profonde . Cerco di racchiudere in ogni colpo di spatola una manciata di tempo, raccontato da chi lo ha vissuto…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXXIII)
La consapevolezza del sogno
“…percorrevo l’Avenida Atlantica costeggiando con piacevole indolenza la spiaggia immensa: una distesa bianca e sottile come farina, che d’un tratto si tingeva di blu cobalto iridescente, per i baci continui del mare. Il bagnasciuga, come uno specchio, rifletteva il turchese intenso del cielo;
le braccia spalancate del Cristo Redentore sulla Baia da Guanabara, segnavano i confini del mio sguardo, avido di abbracciare tutto il litorale di Rio, incastonato nelle curve dolcissime dei piccoli monti, infiochettati dal verde brillante della vegetazione . Ogni cosa era il risultato perfetto di un momento incantato : i profumi dell’oceano umidi e densi, la mia pelle che guizzava , con piccoli brividi , per le carezze della brezza lieve e fresca . Dai chioschi i venditori di noci di cocco e succo di canna muovevano i corpi abbronzati , accompagnando il ritmo suadente dei samba.
Il cuore dilatato: era impellente assorbire tutto l’impeto dell’emozione intensa che incorniciava l’attimo di estasi , ma il mio piccolo essere non poteva che percepire frammenti di quella felicità esplosiva eppure così silenziosa. Come il sussurro intimo, in un respiro, all’orecchio dell’amata che invade lo spirito e fa traboccare un’emozione troppo vasta per la capacità di assimilazione. Ecco: le ho descritto un episodio sempre vivo nella memoria, per rispondere alla sua domanda . Essa mi suggerisce una riflessione che per certi aspetti definirei dolorosa. Quanto sia consapevole ( ma potrei anche scrivere: ” responsabile”) di aver prodotto un bel dipinto? Non si è mai detto tutto consapevoli nel vivere momenti di grande piacere. La sensazione rapisce lo spirito ed invade anche il corpo , ma lo fa come una percezione discreta, che lascia appena il sentore della sua forza. Se un dipinto fosse il risultato volontario di tecniche sapienti, non avrebbe quella vita segreta che percepiamo. Sarebbe priva della meraviglia celata che affascina perché incomprensibile…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXXIV)
Capitolo 1: Gli stracci della Regina
“… qualcuno ha affermato che gli uomini di Fede e gli artisti vivano soprattutto dei respiri dell’anima, ma non creda sia un’azione facile da compiersi. Bisogna essere attenti nel lasciare sempre aperta la porta d’accesso alla parte più segreta dello spirito , per riuscire a vedere la ricchezza che può celarsi anche dietro l’apparente banalità del quotidiano . Caro amico, è necessario che le parli di un incontro che mi ha rivelato , in modo profondo, questa verità.
Irina era una donna senza fissa dimora ; una straniera perché nata in Russia. Viveva sulle panchine , osservando il mondo con uno sguardo pieno di ironia , che metteva in risalto le sue splendide iridi verde muschio, irradiate di pagliuzze d’oro .La vita le aveva donato una grande bellezza , insieme a molti dolori. Era stata un medico dentista, ed anche moglie e madre, ma lo strazio di avere seppellito l’unico figlio , l’aveva resa folle. Almeno così dicevano tutti. Però Irina non era una barbona come le altre ; era diversa e quando fissava qualcuno che le avesse parlato , il suo sguardo creava disagio : era una finestra spalancata con dolore , che emetteva cascate di luce, così violenta , da non potersi sostenere . Indossava gli abiti logori e dismessi che la carità di buone signore le cedevano , reinventandoli con abilità misteriosa. In modo particolare mi affascinava il vezzo di trasformare vecchie sciarpe , in copricapi che avvolgevano , come un turbante , i lunghi capelli colore del bronzo dorato : era una divinità egizia , dallo sguardo fiammeggiante incastonato in un viso altero e sorretto da un collo agile e lungo, come una piccola colonna d’avorio. Si muoveva con passi ondeggianti e calmi, e fendeva l’aria che avvolgeva la sua figura, con incedere elegante ; Nelle giornate più fredde utilizzava vecchie coperte, come riparo. Ma le sceglieva con cura nel mucchio di stoffe offerte ai senza tetto, facendo attenzione ai colori. La magia si ripeteva , e le coperte colorate diventavano abiti fruscianti , mossi dai passi calcolati dalle sue lunghe gambe.
Avevo tentato più volte di intrecciare un colloquio , dopo averla osservata da lontano, ma Irina taceva, muovendo le bellissime labbra in una increspatura che non riusciva a diventare sorriso. “
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXXIV)
Capitolo 2: Gli stracci della Regina
“…comprendo la sua curiosità nel voler sapere di più su Irina ; mi chiede se le abbia mai parlato. Ho avuto un solo colloquio con lei , e conservo la ricchezza di quelle parole come un tesoro di valore immenso . La primavera era preannunciata da un sole che riscaldava l’animo, perché faceva risplendere il cielo blu ceruleo e pennellava di luce i petali dei molti fiori in sboccio nelle aiuole ; avevo sete e mi ero fermato nel giardino pubblico per bere un sorso d’acqua , alla piccola fonte che alimentava il laghetto la cui superficie fremeva di vita , per il guizzo continuo di molti pesci rossi. Irina si era liberata del turbante colorato ed i capelli disciolti le incorniciavano il viso che si piegava all’indietro , con gli occhi socchiusi ed un’espressione di piacere nel ricevere il bacio del sole, mentre un abbozzo di sorriso esaltava i suoi bellissimi tratti. Aveva bagnato i lunghi capelli alla fonte, lisciandoli e pettinandoli con cura. Mi sentivo un intruso: provavo il disagio di chi avesse osato spiare l’abbraccio nuziale di due amanti, ma la bellezza della scena mi inchiodava, privandomi di ogni iniziativa , per la paura di interrompere quel idilio silenzioso. Accorgendosi della mia presenza, mi sorrise con un cenno lieve del capo: era l’invito palese ad una confidenza che mi aveva sempre negato. Le chiesi il permesso di farle una foto, spiegando che l’avrei trasformata in un quadro. Il sorriso sparì lasciandole, però, l’espressione serena.
” Non ti lascerò imprigionarmi sulla tela” mi disse, in modo calmo. “Quella della foto non sarei io. Mi sono liberata della pelle che avevo, come fa la crisalide, perché era piena di ferite, sempre vive, che non potevano guarire mai più. Quella che vedi è una donna che esiste , senza un passato, senza ricordi. “Poi, indicando il cellulare che stringevo nella mano, aggiunse: “quel coso non potrebbe mai imprigionare la vita che mi fa respirare. Sarebbe un’immagine morta! “
Si avvolse con gesti lenti e dolcissimi la chioma dorata e mi sorrise. Seguii la figura che si allontanava, ondeggiando; era la Regina di quel giardino fiorito ed io non mi ero mai sentito tanto stupido!…”
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXXV)
Il tormento di una vocazione
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXXVI)
Una modella molto speciale
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXXVII)
I dialoghi dell’anima
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXXVIII)
La paternità della luce
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XXXIX)
I sogni non mentono
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XL)
Era nudo ma non sapeva di esserlo
DIARIO DI UN RITRATTISTA (XLI)
La chiave d’accesso